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Cannavaro: «Arabia? Vi spiego perchè ho lasciato l’Al Nassr, un paradosso!»

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L’ex Pallone d’Oro oggi allenatore: «Questa è l’età della serenità, della consapevolezza. Ho giocato ad alti livelli ma c’è voluto tanto rigore. Una panchina in Italia? Non ce l’ho perché molti non capiscono la gavetta che ho fatto all’estero»

Sarà una festa tranquilla, ho invitato un po’ di amici». Fabio Cannavaro compie oggi 50 anni, traguardo («non è un numero come un altro») che stasera celebra in un locale nel centro di Napoli. La preoccupazione della vigilia: «Speriamo non aver dimenticato qualcuno, non vorrei fare gaffe». Gli invitati sono 400, il tenore è tutt’altro che intimo. «Vale per tutti i compleanni che non ho festeggiato, ho trascorso mezza vita lontano da casa e mi sono perso tante ricorrenze, mie e dei miei figli».

Che effetto fa?
«È una tappa importante. L’età della serenità, ecco. Oggi sono un uomo più vecchietto (ma anche no, sorride), ma mi sento bene e in forma e di questo ringrazio Dio. Tiro la linea: ho fatto calcio ad alti livelli, ho iniziato nella squadra della mia città, ho vinto in piazze importanti. Sono l’ultimo italiano che ha un Pallone d’oro in bacheca. Ho avuto fortuna? Forse sì. Ma sono stato anche bravo a farmi trovare pronto. Bisogna saperci salire sui treni, quando passano. Non ho mollato nulla. E mica è finita…».

Nei prossimi 50?
«Non esageriamo! Voglio allenare. Ho fatto gavetta e carriera all’estero, sono stato in Iran, Arabia, Qatar, Cina. Ho vinto e adesso vorrei tornare in panchina. Sono uno caparbio, sa?

Al Benevento, in serie B, non è andata bene.
«Non ho trovato una situazione florida e se fossero arrivati giocatori nel mercato di gennaio forse le cose sarebbero andate diversamente. Resta un’esperienza importante».

Perché, secondo lei, non ha ancora una squadra?
«Perché sono tutti convinti che l’allenatore debba fare la gavetta in Italia, come se l’esperienza all’estero non contasse. Invece è fondamentale, ti apre la mente, ti forma».

È stato tra i primissimi ad allenare in Arabia.
«Ero all’Al Nassr, la squadra dove adesso gioca Ronaldo. Altri tempi: andammo via quasi tutti perché non ci pagavano gli stipendi. Raccontarlo ora sembra un paradosso».

L’Arabia è oggi il nuovo Eldorado, contano così tanto i soldi per un calciatore?
«Non facciamo gli ipocriti, è difficile dire no a tutti quei soldi. Ma in ogni caso è anacronistico continuare a pensare che l’Italia sia il campionato più difficile, la Premier quello più bello. Il calcio è cambiato, e poi i giocatori hanno 10 anni di attività, non possono permettersi di dire qui sì e qui no».

Ha un’idea di quanto ha guadagnato? Da calciatore e da allenatore?
«Certo che ce l’ho. Ed è tanto. Ma ho anche speso. I soldi servono ma come mezzo. Non ti fanno felice, ma devono garantirti benessere. Compro e mi faccio regali, viaggio in business e non economy, per esempio».

Da 30 a 50, cos’è cambiato?
«All’epoca mi sentivo Superman. Bello, forte, con gli addominali scolpiti. Avevo il mondo ai piedi ma mi godevo poco: dovevo fare, costruire, raggiungere. Mi sfuggiva il piacere delle piccole cose. A 50 anni ho scoperto il mare, la montagna, le passeggiate, la bicicletta che oggi per me è una compagna di vita».

Che calciatore è stato?
«Un soldato: allenamenti, rigore, pasti salutari e lavoro. Concentrato solo sull’obiettivo. Ho fatto sacrifici, tantissimi. ma non mi pesavano. Sono partito dalla strada, arrivare a giocare a certi livelli non era semplice. Ci devi mettere tutto te stesso. Mi auguro di essere un esempio per i miei figli».

Un rimpianto e un desiderio.
«Chiedo scusa ai miei genitori per il tempo che gli ho sottratto, oggi me ne rendo conto perché li vedo più anziani e in qualche modo più fragili. Il desiderio è appunto recuperare».

Sua moglie Daniela, sposata giovanissima: ha visto poco anche lei?
«Senza il suo sostegno sarebbe stato più difficile. Sono tornato dalla Cina dopo il Covid perché ne sentivo la mancanza. Abbiamo tre figli e la famiglia è un motivo di orgoglio: non è facile tenerla in piedi spesso anche a distanza. Ci vuole pazienza e tanta complicità».

Daniela è gelosa?
«Tantissimo, lo è stata e ancora adesso lo è».

Ha vissuto tanto all’estero, si sentiva straniero?
«Mi sentivo lontano mai straniero, nè a disagio. Casa per me è solo Napoli, tornarci era sempre riconciliarsi col cuore».

Quando si guarda allo specchio cosa pensa?
«Sono sereno e… bello! Meno vanitoso rispetto a 20 anni fa, meno narciso ma più consapevole».

Ha l’etichetta di presuntuoso, concorda?
«Ho vinto tanto da calciatore e pure da allenatore mi sono fatto rispettare, ne sono orgoglioso. Se questa è presunzione, ho ragione ad esserlo. dal punto di vista professionale ha fatto tutto quello che potevo, ho realizzato i miei obiettivi. Qualcuno dice anche che ho una postura un po’ impettita, lo so. Ma sin da ragazzino camminavo e mi muovevo così. Cosa devo farci? Chi mi conosce bene, sa anche che in realtà sono un semplicione».

È stato in tante squadre, qual è quella che l’ha resa più felice?
«Il Napoli, iniziare lì è stato un sogno e poi tutte quelle dove ho vinto. Non ci sono maglie o bandiere: ho dato il massimo ovunque».

All’Inter sembrava in declino, va alla Juve e sfonda.
«Avevo un infortunio alla caviglia, il secondo anno non si sono fidati e probabilmente quando sono andato via si sono pentiti».

Un pensiero speciale?
«Per Marcello Lippi, il mio secondo papà».

Un’intervista per i suoi 50 anni. Che rapporto ha con i giornalisti?
«Li rispetto, ma certi limiti non vanno superati. Quando giocavo ero più distante, gli spogliatoi di una volta erano sacri. Se usciva qualcosa il principale indiziato era sempre quello che era stato visto a parlare con i giornalisti. Oggi non è più così, ma in ogni caso anche sotto quest’aspetto mi è servita l’esperienza europea. A Madrid, per esempio, il rapporto con la stampa viene vissuto in maniera naturale, normale»

Fonte: Corriere della Sera

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